IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
                          (Sezione Seconda) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 10908  del  2014,  integrato  da  motivi  aggiunti,
proposto da: 
      Maurizio Meschino, rappresentato  e  difeso  dall'Avv.  Massimo
Luciani,  con  domicilio  eletto  presso  Massimo  Luciani  in  Roma,
Lungotevere Raffaello Sanzio n. 9; 
    Contro: 
      Segretariato   Generale   della    Giustizia    Amministrativa,
Presidenza del Consiglio dei ministri, Consiglio di Stato,  Ministero
dell'economia e delle  finanze,  in  persona  dei  rispettivi  legali
rappresentanti  pro  tempore,  rappresentati  e  difesi   per   legge
dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in  Roma,  via  dei
Portoghesi n. 12; 
    Per l'annullamento: 
      della nota prot. n. 44 del  21  maggio  2014  del  Segretariato
generale della Giustizia amministrativa avente  il  seguente  oggetto
«art. 1, comma 489, legge 27 dicembre 2013 n.  147.  Determinazioni»,
con  la  quale  l'Amministrazione   convenuta,   preso   atto   della
comunicazione della  Camera  dei  Deputati  da  cui  risulta  che  al
Consigliere Meschino «e' corrisposto un trattamento pensionistico», e
«tenuto conto anche del tetto indicato dall'art 13, decreto-legge  24
aprile 2014 n. 66, pari ad € 240.000,00», ha comunicato al ricorrente
che «provvedera' alla verifica del dato trasmesso dall'Ente erogatore
con  quanto  relativo   al   trattamento   retributivo   corrisposto,
apportando a quest'ultimo, ove necessario, le  dovute  variazioni  in
diminuzione», disponendo altresi' che «resta fermo,  all'esito  delle
definitive determinazioni,  l'obbligo  di  restituzione  delle  somme
percepite per il periodo dell'anno 2014  antecedente  alla  eventuale
riduzione della retribuzione, laddove in eccesso  rispetto  al  tetto
normativamente previsto»; 
      di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali, anche
allo stato non conosciuti, con particolare riferimento, ove  occorra,
alla nota prot. n. 1074 del 14 maggio 2014, a firma del  Segretariato
generale della Giustizia amministrativa, avente il  seguente  oggetto
"Disposizioni  in  materia   di   trattamenti   economici   art.   13
decreto-legge 24 aprile 2014 n. 66 (limite al  trattamento  economico
del  personale  pubblico  e  delle  societa'  partecipate).  Articoli
23-bis, 23-ter decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, conv. in  legge
22 dicembre 2011, n. 214; art. 3, comma 2, DPCM 23 marzo 2012"; 
      nonche'  per  l'accertamento  del  diritto  del  ricorrente   a
percepire  il  trattamento  stipendiale  unitamente  al   trattamento
pensionistico  in  essere,  senza  subire  le  decurtazioni  previste
dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013; 
      nonche',  ancora,  per  la  condanna  al  versamento   e   alla
restituzione delle somme nelle  more  illegittimamente  trattenute  e
recuperate; 
      nonche', con motivi aggiunti notificati in  data  26  settembre
2014, per l'annullamento: 
        della nota, a firma del Segretario generale  della  Giustizia
amministrativa in data 28 luglio 2014, prot. n. 89, avente ad oggetto
«art. 1, comma 489, legge 27 dicembre 2013, n. 147.  Determinazioni»,
con cui l'Amministrazione convenuta, facendo seguito alla  precedente
nota del 21 maggio 2014, prot. n. 44, ha comunicato al Cons. Meschino
che, a decorrere dal  mese  di  agosto  2014,  «fermi  gli  ulteriori
approfondimenti sulla norma citata [i.e. art. 1, comma 489, legge  27
dicembre 2013, n.  147],  anche  con  riferimento  alle  garanzie  di
continuita' della copertura assicurativa obbligatoria -  provvedera',
allo  stato,  alla  sospensione   dell'erogazione   del   trattamento
retributivo»,  contestualmente  disponendo  che  «resta   confermato,
all'esito delle definitive determinazioni, l'obbligo di  restituzione
delle somme percepite per il periodo 2014 antecedente  alla  disposta
sospensione, laddove in  eccesso  rispetto  al  tetto  normativamente
previsto per il corrente anno»; 
        della  nota  del  Segretariato   generale   della   Giustizia
amministrativa  -  Ufficio  Gestione  Bilancio  e   del   Trattamento
economico, datata 5 agosto 2014, prot. n. 17474, avente  ad  oggetto,
«Comunicazione di  versamento  delle  addizionali  comunali  Irpef  e
dell'addizionale  regionale  Irpef»,  con  cui  l'amministrazione  ha
comunicato  che,  per  effetto  della  sospensione  del   trattamento
retributivo ex art. 1, comma 489, legge 27  dicembre  2013,  n.  147,
disposta a decorrere dal mese di agosto con la nota prot. n.  89  del
Segretariato Generale, il Cons. Meschino «dovra' procedere a  versare
personalmente le addizionali comunali Irpef e l'addizionale regionale
Irpef», secondo gli importi determinati  nel  prospetto  allegato  al
provvedimento nonche',  ove  occorrer  possa,  dei  cedolini  mensili
riepigolativi del  trattamento  economico  erogato,  allo  stato  non
conosciuti; 
        nonche', con motivi aggiunti notificati in  data  5  dicembre
2014, per l'annullamento: 
          della nota prot. n. 122 del 7 ottobre  2014,  a  firma  del
Segretario  generale  della  Giustizia  amministrativa,   avente   il
seguente oggetto «art. 1, comma 489, legge 27 dicembre 2013, n.  147.
Determinazioni», con la  quale  l'Amministrazione  ha  comunicato  al
ricorrente che «all'esito dell'istruttoria avviata per l'applicazione
della  normativa  in  oggetto  risulta   che   il   Suo   trattamento
pensionistico, al netto del contributo di solidarieta', e'  superiore
al tetto massimo retributivo previsto  dalla  vigente  normativa  per
l'anno 2014», contestualmente ordinando la restituzione della  maggio
somma erogata al netto degli oneri sociali; 
          nonche', infine, con i terzi motivi aggiunti notificati  in
data 5 marzo 2015,  per  l'annullamento:  della  nota,  a  firma  del
Segretario generale della Giustizia amministrativa, prot. n. 2 del  7
gennaio 2015, avente  ad  oggetto:  «art.  1,  comma  489,  legge  27
dicembre 2013, n. 147. Determinazioni", con cui l'Amministrazione  ha
comunicato che "per l'anno 2015, il trattamento economico,  ad  oggi,
spettante [al Cons. Meschino] risulta  superiore  al  limite  massimo
retributivo fissato in € 240.000,00, per effetto del  cumulo  con  il
trattamento pensionistico in godimento", dando  contestualmente  atto
che  «le  [...]  competenze  retributive  verranno  erogate  fino   a
concorrenza del predetto limite» e rammentando che «per  effetto  del
superamento del [...] tetto retributivo non  possono  essere  erogati
ulteriori compensi a carico della finanza  pubblica»;  della  nota  a
firma del Segretario generale della Giustizia amministrativa prot. n.
7 del 19 gennaio 2015, con cui e' stato comunicato che il  ricorrente
ha percepito, per  l'anno  2014,  l'ulteriore  maggiore  somma  di  €
11.302,55, come risultante  dalla  nota  del  10  dicembre  2014  del
Servizio Personale della Camera dei  Deputati,  disponendo  che  tale
somma verra' recuperata dalle  competenze  dovute  per  l'anno  2015,
salvo eventuali conguagli. 
    Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti  di  costituzione  in  giudizio  del  Segretariato
generale della Giustizia amministrativa, del Ministero  dell'economia
e delle finanze, del  Consiglio  di  Stato  e  della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  24  febbraio  2016  il
Consigliere Elena Stanizzi e uditi per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
 
      Ritenuto in fatto e considerato in diritto, quanto segue 
 
    1. Il Consigliere di Stato Meschino rappresenta di appartenere ad
un'esigua categoria di pubblici funzionari di altissimo livello, che,
giunti  all'apice  della  propria  carriera,  sono   stati   nominati
Consiglieri di Stato ai sensi dell'art. 19, comma  1,  n.  2),  della
legge  n.   186   del   1982,   essendo   collocati   in   quiescenza
dall'Amministrazione di originaria appartenenza. 
    Anche nel suo caso, «la nomina a  Consigliere  di  Stato  giunge,
dunque, a coronamento di una carriera pubblica di assoluto  spicco  e
concerne un numero molto ridotto di servitori  dello  Stato,  che  in
tale nomina (accettata, sovente, anche  rinunciando  a  significative
opportunita' nel  settore  privato)  trovano  il  riconoscimento  dei
meriti acquisiti nell'esercizio delle precedenti funzioni,  ma  anche
della specifica attitudine all'esercizio delle nuove attribuzioni». 
    In particolare il Cons. Meschino rappresenta che, nel corso della
sua attivita' lavorativa, quale appartenente ai  ruoli  della  Camera
dei Deputati, e' stato, fra  l'altro,  Capo  della  segreteria  della
Camera dei Deputati e che esercita  le  funzioni  di  Consigliere  di
Stato a far data dal 1998, risultando  al  contempo  titolare  di  un
trattamento pensionistico erogato  da  un  soggetto  pubblico  (nella
specie Camera dei Deputati). 
    2. Il ricorrente procede quindi ad illustrare il quadro normativo
nel quale si inseriscono i  provvedimenti  impugnati  con  i  ricorsi
introduttivi evidenziando quanto segue. 
    Di  recente  sono   state   introdotte   importanti   misure   di
contenimento della spesa nel  settore  pubblico,  anche  mediante  la
previsione di limiti ai  trattamenti  economici  ed  agli  emolumenti
corrisposti ai dipendenti pubblici, ai titolari di cariche elettive e
ai titolari di  incarichi  con  emolumenti  a  carico  della  finanza
pubblica. 
    In tale contesto si inserisce l'art. 23-ter del decreto-legge  n.
201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011,  il  quale,  al
comma 1, primo periodo, stabilisce che «con  decreto  del  Presidente
del  Consiglio  dei  ministri,   previo   parere   delle   competenti
Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di  entrata
in vigore  della  legge  di  conversione  del  presente  decreto,  e'
definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo  di  chiunque
riceva a carico delle finanze  pubbliche  emolumenti  o  retribuzioni
nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche
amministrazioni statali, di cui all'art.  1,  comma  2,  del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e  successive  modificazioni,  ivi
incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'art.  3
del  medesimo  decreto  legislativo,  e   successive   modificazioni,
stabilendo come  parametro  massimo  di  riferimento  il  trattamento
economico del primo presidente della Corte di cassazione». 
    In attuazione di tale disposizione, il Presidente  del  Consiglio
dei ministri ha adottato il decreto 23 marzo  2012,  recante  «Limite
massimo retributivo per  emolumenti  o  retribuzioni  nell'ambito  di
rapporti  di  lavoro  dipendente  o   autonomo   con   le   pubbliche
amministrazioni statali»,  il  quale  dispone,  all'art.  3,  che  «a
decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto, il trattamento
retributivo percepito annualmente, comprese le indennita' e  le  voci
accessorie nonche' le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori
o consulenze conferiti da amministrazioni pubbliche diverse da quella
di appartenenza,  dei  soggetti  di  cui  all'art.  2  [trattasi  dei
"soggetti destinatari" del decreto] non puo' superare il  trattamento
economico annuale  complessivo  spettante  per  la  carica  al  Primo
Presidente della  Corte  di  cassazione,  pari  nell'anno  2011  a  €
293.658,95. Qualora superiore, si riduce al predetto limite». 
    In  seguito,  il  legislatore  e'  nuovamente  intervenuto  sulla
materia con l'art. 1, comma 489, della legge  27  dicembre  2013,  n.
147, disponendo che, ai fini del raggiungimento del  predetto  tetto,
devono esser computati anche i  trattamenti  pensionistici  pregressi
eventualmente percepiti a carico di gestioni previdenziali pubbliche. 
    In particolare quest'ultima disposizione prevede che «ai soggetti
gia'  titolari  di  trattamenti  pensionistici  erogati  da  gestioni
previdenziali pubbliche,  le  amministrazioni  e  gli  enti  pubblici
compresi nell'elenco ISTAT di cui all'art. 1, comma 2, della legge 31
dicembre 2009,  n.  196,  e  successive  modificazioni,  non  possono
erogare  trattamenti  economici  onnicomprensivi  che,   sommati   al
trattamento  pensionistico,  eccedano  il  limite  fissato  ai  sensi
dell'art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214.
Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono  compresi
i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive». 
    Il  terzo  periodo  della  medesima  disposizione,  al  fine   di
armonizzare  il  nuovo  regime  con  le   posizioni   retributivo   -
previdenziali in essere alla sua  entrata  in  vigore,  aggiunge  che
«sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro
naturale scadenza prevista negli  stessi»,  mentre  l'ultimo  periodo
prevede che «gli organi costituzionali applicano i principi di cui al
presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti». 
    Da ultimo l'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014, ha  ridotto
il tetto massimo fissato dal d.P.C.M. 23 marzo 2012,  prevedendo  che
«a decorrere  dal  1°  maggio  2014  il  limite  massimo  retributivo
riferito al primo presidente della Corte di cassazione previsto dagli
articoli 23-bis e 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011,  n.  201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,
e successive modificazioni e integrazioni, e' fissato in € 240.000,00
annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e  degli
oneri fiscali a carico del dipendente». 
    3.  Cio'  premesso  il  ricorrente  -   nel   rimarcare   che   i
provvedimenti  impugnati,  adottati  dall'Amministrazione  per   dare
attuazione   al   suesposto   quadro   normativo,   determinano    un
rilevantissimo sacrificio  delle  proprie  aspettative  economiche  -
avverso tali provvedimenti deduce le seguenti censure. 
I) Violazione e falsa applicazione  dell'art.  1,  comma  489,  della
legge 27 dicembre 2013, n. 147, anche in riferimento all'art.  23-ter
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, come convertito  in  legge
22 dicembre 2011, n. 214. 
    Il ricorrente - nel rammentare il fondamentale canone ermeneutico
secondo   il   quale   le    leggi    debbono    essere    dichiarate
costituzionalmente  illegittime  laddove  non  sia  possibile   darne
interpretazioni conformi alla Costituzione - si duole  innanzi  tutto
del fatto che l'Amministrazione non  abbia  ritenuto  applicabile  la
deroga contenuta al terzo periodo dell'art. 1, comma 489, della legge
n. 147 del 2013, secondo il quale «sono fatti salvi i contratti e gli
incarichi in corso fino alla loro naturale  scadenza  prevista  negli
stessi». 
    In particolare i  provvedimenti  impugnati  poggerebbero  su  una
lettura parziale ed errata della disposizione in commento perche'  la
stessa non puo' non riferirsi anche ai rapporti di  lavoro  a  regime
pubblicistico   intesi   nella   loro   globalita',   non   potendosi
legittimamente  differenziare  tra  rapporti   la   cui   prestazione
specifica consista nell'assolvimento di un «incarico», e rapporti  la
cui  prestazione  specifica  consista  nello   svolgimento   di   una
«funzione». 
    In  altri  termini,  secondo  parte  ricorrente,  il  legislatore
avrebbe inteso far salvi i trattamenti in essere, sia che  ineriscano
al pubblico impiego privatizzato,  sia  che  ineriscano  al  pubblico
impiego non privatizzato, nel quale vengono  costituiti  rapporti  di
lavoro per i quali non avrebbe senso distinguere  tra  «incarichi»  e
«funzioni». 
    Del resto,  a  conferma  dell'applicabilita'  della  disposizione
derogatoria anche al pubblico impiego non  privatizzato,  rileverebbe
il fatto che la stessa si pone in evidente parallelismo con la stessa
norma istitutiva del tetto massimo  di  cumulo  (l'art.  23-ter,  del
decreto-legge n. 201 del 2011), la quale, al comma 1, indica come suo
destinatario  «chiunque  riceva  a  carico  delle  finanze  pubbliche
emolumenti  o  retribuzioni  nell'ambito  di   rapporti   di   lavoro
dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali,  di  cui
all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e
successive modificazioni [ossia il  pubblico  impiego  privatizzato],
ivi incluso il  personale  in  regime  di  diritto  pubblico  di  cui
all'art.  3  del   medesimo   decreto   legislativo,   e   successive
modificazioni [ossia il pubblico impiego non privatizzato]». 
    Il   termine   «incarico»   comprenderebbe,   quindi,   qualunque
conferimento di compiti da parte dell'amministrazione,  ivi  compreso
il conferimento di funzioni nell'ambito di un rapporto di impiego non
privatizzato, come dimostra il fatto che, proprio  nell'ambito  della
disposizione istitutiva del tetto (art. 23-ter cit.), il  legislatore
ha utilizzato indifferentemente i due termini, prevedendo al comma  2
che «il personale di cui al comma 1 che e' chiamato,  conservando  il
trattamento   economico    riconosciuto    dall'amministrazione    di
appartenenza, all'esercizio di  funzioni  direttive,  dirigenziali  o
equiparate, anche in posizione  di  fuori  ruolo  o  di  aspettativa,
presso Ministeri o enti pubblici  nazionali,  comprese  le  autorita'
amministrative  indipendenti,  non  puo'  ricevere,   a   titolo   di
retribuzione o  di  indennita'  per  l'incarico  ricoperto,  o  anche
soltanto  per  il  rimborso  delle  spese,  piu'  del  25  per  cento
dell'ammontare complessivo del trattamento economico percepito». 
    L'intenzione del legislatore di riferire la  nuova  disciplina  a
tutte le forme di pubblico impiego si desumerebbe poi dal  fatto  che
il primo periodo del richiamato comma 489, nel  disporre  il  computo
nel  tetto  dei  «trattamenti  pensionistici  erogati   da   gestioni
previdenziali pubbliche», si  riferisce  a  tutti  i  trattamenti  in
questione, a prescindere dalla  fonte  generatrice  del  rapporto  di
lavoro  o  di  impiego,  e  quindi  sarebbe   internamente   illogico
uniformare il trattamento del lavoro privatizzato e  del  lavoro  non
privatizzato  dal  punto  di  vista   del   computo   del   tetto   e
differenziarlo dal punto di vista della salvaguardia delle situazioni
in essere. Infine il ricorrente, a supporto delle considerazioni  sin
qui svolte, invoca la circolare della  P.C.d.M.,  Dipartimento  della
funzione pubblica, Servizio studi e consulenza trattamento personale,
n. 3 del 18 marzo 2014, che - nel fornire alcune note esplicative per
l'applicazione della nuova disciplina - non prevede alcuna diversita'
di   trattamento   basata   sul   tipo   rapporto   di   lavoro   con
l'Amministrazione. 
II) Difetto di motivazione. 
    Parte ricorrente si duole del  fatto  che  l'amministrazione  nei
provvedimenti impugnati nulla dica in ordine alle ragioni che l'hanno
indotta a ritenere inapplicabile la deroga di cui all'art.  1,  comma
489, terzo periodo, della legge n. 147 del 2013 a coloro che svolgono
la funzione di Consigliere di Stato. 
III)  In  subordine.  Illegittimita'   derivata   dei   provvedimenti
impugnati  per  illegittimita'  costituzionale   della   disposizione
dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013. 
    Per il caso in cui la  suddetta  disposizione  derogatoria  fosse
ritenuta applicabile anche al suo caso, parte ricorrente sostiene che
la disciplina introdotta dall'art. 1, comma 489, della legge  n.  147
del 2013  sarebbe  incostituzionale  sotto  molteplici  profili,  con
conseguente illegittimita' (derivata) degli  atti  applicativi  della
stessa. 
    III.1) Disparita' di trattamento e violazione  del  principio  di
ragionevolezza. 
    Innanzi  tutto  parte  ricorrente  sostiene  che  la   disciplina
introdotta dall'art. 1, comma  489,  della  legge  n.  147  del  2013
sarebbe incostituzionale nella  parte  in  cui  prevede  la  suddetta
disposizione derogatoria, perche' regola  antiteticamente  situazioni
sostanzialmente identiche, senza alcuna giustificazione meritevole di
apprezzamento, e quindi determina gravi disparita' di  trattamento  e
contrasta  con  il  principio   di   ragionevolezza.   Difatti,   non
sussisterebbero comprensibili ragioni  per  far  salvi  i  dipendenti
contrattualizzati o quelli titolari di «incarichi» in quanto: 
      A) ogni  prestazione  puo'  essere  indifferentemente  resa  in
regime  pubblicistico  o  privatistico,  ovvero  sulla  base  di   un
contratto individuale o  della  generale  disciplina  delle  mansioni
affidate al personale appartenente ad un determinato ruolo; 
      B)  la  scelta  fra  l'uno  e  l'altro   regime   spetta   alla
discrezionalita' del legislatore e non le e' sottesa  una  diversita'
ontologica tra questa o quella prestazione  o  fra  questa  o  quella
categoria di lavoratori; 
      C) un criterio distintivo non potrebbe essere  rinvenuto  nella
differente durata del rapporto, perche' il contratto puo' ben  essere
(ed e' normalmente, nel caso di rapporto di  lavoro  privatizzato)  a
tempo  indeterminato  tanto  quanto  il  rapporto  di   impiego   dei
dipendenti non contrattualizzati; 
      D) anche quando l'incarico o il contratto  e'  a  termine,  non
mancano esempi di incarichi (si pensi a quelli dei  componenti  delle
autorita' indipendenti) e di contratti dirigenziali che si  estendono
per un arco temporale considerevole,  sovente  eccedente  il  residuo
arco  di   servizio   espletabile   dal   ricorrente   a   far   data
dall'introduzione del cumulo e fino  al  collocamento  in  quiescenza
come Consigliere di Stato. Ne' varrebbe obiettare  che  nel  caso  in
esame si pretende l'estensione di una norma derogatoria,  perche'  la
norma   stessa   fa   salva   la   generalita'   dei   rapporti   con
l'Amministrazione. 
  III.2) Violazione del principio di ragionevolezza  sotto  un  altro
profilo. 
    Parte ricorrente - premesso che per la nomina  a  Consigliere  di
Stato l'art. 19, comma 2, della legge  n.  186  del  1982  presuppone
l'aver gia' svolto attivita' di professore universitario ordinario di
materie giuridiche o di  avvocato  da  almeno  quindici  anni  ovvero
l'appartenenza alla dirigenza generale dei  Ministeri,  degli  organi
costituzionali e delle altre amministrazioni pubbliche ovvero  ancora
l'avere la  qualifica  di  magistrato  di  Corte  d'appello  o  altra
equiparata - evidenzia che il legislatore stesso ha  prefigurato  uno
schema che generalmente comporta la coesistenza di un trattamento  di
quiescenza e di una nuova retribuzione. Difatti la  disciplina  della
nomina governativa dei Consiglieri di  Stato  mira  ad  acquisire  le
competenze piu'  solide  e  prestigiose  disponibili  nel  mondo  del
diritto, che sono naturaliter possedute proprio da coloro  che  hanno
gia' una rilevante attivita' professionale alle  spalle,  sicche'  la
coesistenza tra pensione e stipendio e' implicita nella ratio  stessa
della  legge  n.  186  del  1982.  Quindi  la  censurata   disciplina
determinerebbe una contraddizione interna al sistema delle fonti  che
regolano l'esercizio delle funzioni  di  Consigliere  di  Stato,  con
conseguente violazione del principio  di  ragionevolezza,  desumibile
dall'art. 3 Cost. 
  III.3) Violazione del principio della tutela  dell'affidamento,  di
cui agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione e  all'art.  6
della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. 
    Parte ricorrente - premesso che la Corte costituzionale  ha  piu'
volte precisato come  la  facolta'  del  legislatore  di  intervenire
retroattivamente sui rapporti di durata trovi  limiti  insormontabili
nel rispetto del principio di ragionevolezza,  che  si  riflette  nel
divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento e  del
principio di tutela dell'affidamento, desumibili dall'art. 3 Cost.  -
sostiene che  la  censurata  disciplina,  nell'interpretazione  fatta
propria dall'Amministrazione resistente, determina il superamento dei
predetti  limiti.  In  particolare,   secondo   il   ricorrente,   le
ingiustificate disparita' di trattamento  sarebbero  rese  palesi  da
quanto gia'  dedotto  sul  trattamento  differenziato  delle  diverse
categorie di dipendenti pubblici, mentre la lesione  dell'affidamento
discenderebbe dal fatto che egli, avendo meritato e maturato  sia  il
trattamento pensionistico sia il trattamento retributivo percepito in
qualita' di Consigliere di Stato,  aveva  legittimamente  diritto  di
giovarsene a tempo  indeterminato.  Inoltre  nel  caso  in  esame  la
lesione del legittimo affidamento determinerebbe anche la  violazione
del combinato disposto dell'art. 117, comma 1,  Cost.  con  l'art.  6
della Convenzione Europea dei Diritti  dell'Uomo,  perche'  la  Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo ha piu'  volte  affermato  che,  tra  i
motivi imperativi di interesse generale che  giustificano  interventi
normativi retroattivi, non rientra l'ottenimento di un mero beneficio
economico per la finanza pubblica. Infine parte  ricorrente  rammenta
che anche la Corte di Giustizia ha  precisato  come  nell'ordinamento
dell'Unione europea il principio dell'affidamento si  sostanzi  nella
legittima aspettativa, riconosciuta a ciascun  soggetto  operante  in
quell'ordinamento,  a  che  non  si   realizzi   una   irragionevole,
retroattiva, modificazione del quadro giuridico di riferimento. 
  III.4) Violazione degli articoli 3, 4, 36 e 38 della Costituzione. 
    La censurata disciplina contrasta (per un ulteriore profilo)  con
il principio di ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  Cost.,  con  il
diritto ad un'equa retribuzione  (art.  36  Cost.),  anche  differita
(art.  38  Cost.),  con  il  diritto  alla  tutela  assistenziale   e
previdenziale (ancora art. 38 Cost.) e con il diritto al lavoro (art.
4 Cost.) perche', per effetto di tale disciplina, la retribuzione  di
attivita' lavorative connotate da elevatissimi standard  qualitativi,
svolte da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione
di assoluta eccellenza, viene sottoposta a ingenti decurtazioni e  in
non poche ipotesi addirittura azzerata. Difatti tali  figure,  avendo
ricoperto/svolto, in anni di servizio alle  dipendenze  dello  Stato,
delle  cariche/funzioni  apicali,  hanno  maturato   un   trattamento
pensionistico di  ammontare  prossimo  o  superiore  al  tetto  di  €
240.000,00 e, quindi, si troverebbero  a  svolgere  una  funzione  di
cruciale importanza e di grande responsabilita' - qual e'  quella  di
Consigliere  di  Stato  -  percependo  una  retribuzione   esigua   o
addirittura  inesistente.  Ne'   potrebbe   opporsi   che   egli   ha
volontariamente  assunto  lo  status  che  comporta   le   menzionate
decurtazioni  della  retribuzione  e   del   precedente   trattamento
retributivo; difatti l'orientamento della  Corte  costituzionale  che
esclude la lesione di un diritto costituzionalmente garantito laddove
il  titolare  dello  stesso  si  sia  posto,  attraverso  la  propria
condotta,  nelle  condizioni  che  determinano  la  compressione  del
diritto stesso non sarebbe applicabile nel caso in esame  perche'  la
sovrapposizione tra la  pensione  e  la  retribuzione  e'  la  logica
conseguenza dell'applicazione della legge n. 186 del 1982, sicche' il
ricorrente medesimo, accettando la nomina a Consigliere di Stato,  ha
legittimamente fatto affidamento nell'osservanza di  tale  logica  da
parte del legislatore. Inoltre, egli deduce che per  poter  percepire
il proprio precedente  trattamento  pensionistico  (corrispondente  a
cospicui   versamenti   contributivi   eseguiti   per   un    periodo
particolarmente lungo) dovrebbero rinunciare  a  svolgere  l'incarico
che gli e' stato attribuito; pertanto delle  due  l'una:  o  egli  si
rassegna a percepire un trattamento pensionistico non commisurato  al
montante contributivo accumulato e una retribuzione  non  commisurata
all'attivita'  professionale  prestata,  oppure  deve  rinunciare   a
svolgere  l'attuale  incarico,  con  conseguente   violazione   della
liberta' di esercitare qualsivoglia attivita' lavorativa. 
    Infine, lamenta la violazione  dell'art.  38  della  Costituzione
evidenziando che la drastica riduzione  o  addirittura  l'azzeramento
della  retribuzione  precludono  la  tutela  assistenziale   prevista
dall'ordinamento soltanto per chi versa la relativa contribuzione. 
  III.5) Violazione degli articoli 3, 95 e 97 della Costituzione. 
    Il ricorrente - premesso che la nomina governativa di  una  parte
dei Consiglieri di Stato, da  scegliere  nella  platea  degli  aventi
titolo di cui all'art. 19, comma 2, della legge n. 186 del  1982,  e'
uno strumento di sicura rilevanza per lo svolgimento  delle  funzioni
affidate  al  Consiglio  stesso,  dato  che  introduce  nell'Istituto
esperienze particolari di  amministrazione  attiva,  ne  accentua  la
specializzazione e aumenta il grado di conoscenza  del  funzionamento
della  macchina  amministrativa -  deduce  ancora  che  la  normativa
censurata, penalizzando fortemente  proprio  le  figure  di  maggiore
spicco, finisce per costringere il Governo ad indirizzare altrove  le
proprie scelte e quindi contrasta, oltre  che  con  il  principio  di
ragionevolezza, anche  con  il  principio  di  buon  andamento  della
pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), perche' la  scelta  non  e'
indirizzata   ai   migliori,   e   con   l'affidamento   al   Governo
dell'indirizzo politico-amministrativo (art. 95 Cost.), perche'  esso
viene qui distolto dal suo approdo piu' coerente e mortificato  nella
liberta' della sua esplicazione.  
  III.6) Violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione. 
    Invocando un precedente specifico della Corte costituzionale  (la
sentenza n. 223 del 2012) e l'ordinanza di questo Tribunale  n.  5693
del  2014  (con  la  quale  e'  stata  sollevata  la   questione   di
costituzionalita' dell'art. 9, comma 21, del decreto-legge n. 78  del
2010), sostiene che la normativa censurata istituisce un prelievo  di
natura sostanzialmente tributaria, che risulta pero'  discriminatorio
perche'  grava  soltanto  sui  pensionati  titolari  di  incarichi  o
rapporti di lavoro  pubblici,  lasciando  indenne  la  posizione  dei
pensionati che prestino servizio alle  dipendenze  di  un  datore  di
lavoro privato o esercitino attivita' libero-professionale. 
  III.7) Violazione degli articoli 3,  100,  101,  104  e  108  della
Costituzione. 
    Premesso che, secondo una consolidata giurisprudenza della  Corte
costituzionale (sentenze n. 223 del 2012, n. 99 del 1995, n.  42  del
1993 e n. 238 del 1990), una disposizione  di  legge  che  incide  in
peius sul trattamento retributivo dei magistrati e' legittima purche'
abbia natura eccezionale e portata temporale limitata e sia  comunque
inserita in un ragionevole e non  arbitrario  intervento  perequativo
fra categorie di cittadini, parte ricorrente  ritiene  che  cio'  non
accade nel caso in esame, perche' il tetto massimo  agli  emolumenti,
oltre ad incidere retroattivamente su un trattamento retributivo e su
un  trattamento  previdenziale  gia'  maturati,   non   persegue   un
intervento perequativo, non essendo applicabile a tutte le  categorie
dei percettori di reddito, ma solo a quella  di  chi  si  trova  alle
dipendenze della amministrazioni pubbliche. Ne consegue la violazione
delle  invocate  disposizioni   costituzionali   poste   a   garanzia
dell'indipendenza di tutti coloro che  sono  chiamati  ad  esercitare
funzioni giurisdizionali, ivi compresi i magistrati amministrativi. 
  III.8) violazione dell'art. 23 della Costituzione. 
    Infine, il ricorrente lamenta  la  violazione  dalla  riserva  di
legge sancita dell'art. 23  Cost.  per  le  prestazioni  patrimoniali
imposte, evidenziando che la  normativa  censurata  non  definisce  i
criteri per la propria applicazione, lasciando del tutto  indefinita,
ad esempio, la questione delle  modalita'  di  recupero  delle  somme
eccedenti  il  tetto  gia'  percepite  o  quella  della  sorte  della
copertura assicurativa. 
    4. Il ricorrente, con i ricorsi per motivi aggiunti  in  epigrafe
indicati, ha successivamente impugnato  gli  ulteriori  provvedimenti
adottati dall'Amministrazione  nei  propri  confronti  in  attuazione
della disciplina introdotta dall'art. 1, comma 489,  della  legge  n.
147 del 2013. 
    5. Il ricorrente - con memoria successivamente depositata  -  nel
rappresentare che la prima Sezione questo Tribunale  con  l'ordinanza
17 aprile 2015, n. 5715 ha sollevato  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013  -
ha evidenziato  innanzi  tutto  che  i  dubbi  prospettati  con  tale
ordinanza sono in parte analoghi a quelli prospettati con il  ricorso
in esame, avendo ad oggetto: 
      A) la violazione dell'art. 36 della  Costituzione,  in  ragione
del fatto che il ricorrente, per effetto della censurata  disciplina,
si troverebbe a svolgere  la  funzione  di  Consigliere  di  Stato  -
percependo una retribuzione esigua  se  non  addirittura  inesistente
(cfr. il motivo III.4); 
      B) la violazione degli articoli 3 e 97 della  Costituzione,  in
ragione del fatto che la normativa censurata, penalizzando le  figure
di maggiore spicco, finisce per costringere il Governo ad indirizzare
altrove le proprie scelte (cfr. il motivo III.5); 
      C) la violazione dell'art. 38 della  Costituzione,  in  ragione
del fatto che chi non percepisce uno stipendio non  ha  diritto  alla
tutela assistenziale prevista dall'ordinamento, riconosciuta  solo  a
chi versa la relativa contribuzione (cfr. il motivo III.4); 
      D) la violazione delle disposizioni degli  articoli  100,  101,
104 e 108 della Costituzione, poste a presidio  dell'indipendenza  di
tutti  coloro  che   esercitano   o   possono   esercitare   funzioni
giurisdizionali (ivi compresi i magistrati amministrativi). 
    Inoltre  ha  insistito  affinche'  vengano  sollevate  anche   le
ulteriori questioni di legittimita' prospettate  con  il  ricorso  in
epigrafe indicato, incentrate: 
      A) sulla violazione del principio  di  ragionevolezza  e  sulla
disparita' di trattamento tra dipendenti contrattualizzati o titolari
di incarichi e dipendenti non contrattualizzati; 
      B) sull'ulteriore violazione del  principio  di  ragionevolezza
connessa al contrasto con la disciplina posta dall'art. 19, comma  2,
della legge n. 186/1982; 
      C) sulla violazione dell'art. 23 della Costituzione; 
      D)  sulla  violazione  degli  articoli  3,  95   e   97   della
Costituzione; 
      E)   sulla    violazione    del    principio    della    tutela
dell'affidamento, di cui agli  articoli  3  e  117,  comma  1,  della
Costituzione e all'art.  6  della  Convenzione  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo. 
    Ha infine precisato che  nel  caso  in  esame  non  sussistono  i
presupposti per disporre la c.d. sospensione impropria  del  giudizio
per pendenza di un'analoga questione di  legittimita'  costituzionale
sollevata in altro giudizio (ossia  in  quello  nel  quale  e'  stata
pronunciata la suddetta ordinanza  n.  5715/2015),  perche'  egli  ha
interesse ad interloquire innanzi alla Corte costituzionale. 
    6.  La  Difesa  erariale,  in   rappresentanza   delle   intimate
Amministrazioni, ha sostenuto l'infondatezza delle suesposte  censure
osservando, in particolare, che: 
      A) la disciplina dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del
2013 e' stata introdotta in attuazione del principio di pareggio  del
bilancio, sancito dal novellato art. 81 della Costituzione e mira  al
contenimento della spesa nel settore pubblico; 
      B) la clausola che salvaguarda i contratti e gli  incarichi  in
corso fino alla loro naturale scadenza non si applica ai  rapporti  a
tempo indeterminato  regolati  da  norme  di  legge  o  da  contratti
collettivi, essendo volta  a  garantire  la  certezza  di  situazioni
giuridiche derivanti da rapporti a tempo  determinato,  aventi  fonte
convenzionale e regolati da una specifica  disciplina  in  base  alla
quale le parti hanno raggiunto  l'accordo  e  assunto  le  rispettive
obbligazioni. 
    Quindi, con successiva memoria - oltre a rilevare  che  la  prima
Sezione questo Tribunale con l'ordinanza n. 5715  del  2015  ha  gia'
ritenuto infondate talune delle questioni legittimita' costituzionale
prospettate  dal  ricorrente  -  ha  eccepito  l'infondatezza   delle
ulteriori questioni sollevate con la predetta ordinanza. 
    In particolare, secondo la Difesa erariale, la  disciplina  posta
dall'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 non viola: 
      A) gli articoli 3 e 97 Cost., perche' concorre  ad  assicurare,
mediante  il  rispetto  del  limite  retributivo,   una   piu'   equa
redistribuzione di risorse pubbliche; 
      B) gli articoli 36 e 38 Cost., perche' non limita  direttamente
il trattamento economico o previdenziale connesso allo svolgimento di
una  qualsivoglia  attivita'  lavorativa,   bensi'   il   cumulo   di
trattamenti economici posti a carico della finanza pubblica,  sicche'
le  decurtazioni  sul  trattamento  economico  corrisposto   per   le
attivita' svolte successivamente al collocamento in  quiescenza  sono
meramente eventuali, perche' operano  solo  nei  casi  in  cui  venga
superato il tetto posto dall'art. 13, comma 1, del  decreto-legge  n.
66/2014; 
      C) gli articoli 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., perche' ai  fini
del rispetto del tetto non e' in discussione la corresponsione  della
retribuzione, ma  il  solo  trattamento  complessivo,  derivante  dal
cumulo  tra  il  trattamento  previdenziale   in   godimento   e   la
retribuzione corrisposta in virtu' in un nuovo rapporto - liberamente
accettato dall'interessato - che determina il superamento  del  tetto
retributivo. 
    7. Alla pubblica udienza del 24 febbraio  2016  il  ricorso  e  i
motivi aggiunti sono passati in decisione. 
    8. Il Collegio ritiene - anche sulla scorta di  quanto  affermato
dalla prima Sezione questo Tribunale nell'ordinanza n. 5715 del 2015,
pronunciata nell'ambito di un giudizio analogo  a  quello  di  esame,
promosso da magistrati della Corte dei Conti - che siano rilevanti  e
non manifestamente infondate talune delle questioni  di  legittimita'
costituzionale prospettate dal ricorrente, alla luce  delle  seguenti
considerazioni. 
    9. Innanzi tutto, in punto di rilevanza, si osserva quanto segue. 
    I provvedimenti impugnati  trovano  la  loro  indefettibile  base
normativa nell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013. 
    Al riguardo, non possono essere condivise le censure dedotte  con
i primi due motivi del ricorso introduttivo e ribadite con  i  motivi
aggiunti riferite alla  disposizione  derogatoria  che  fa  «salvi  i
contratti e gli incarichi in corso fino alla loro  naturale  scadenza
prevista negli stessi», riferendosi la stessa a «tutti i  rapporti  -
indifferentemente di diritto privato o pubblico  ...  -  che  a  quel
momento, peraltro, non solo erano gia' in corso, bensi'  erano  anche
individuati da un naturale termine di "scadenza", e non gia', quindi,
ai  rapporti  relativi  all'esercizio  in  atto   di   una   funzione
giurisdizionale "togata" e non onoraria, «ovverosia svolta a  seguito
dell'inserimento a pieno titolo in un plesso giurisdizionale, con  la
conseguente creazione di un  rapporto  d'ufficio  caratterizzato  non
gia' da una prefissata temporaneita' bensi' - al  contrario  -  dalla
stabilita' ed anzi dalla garanzia di  inamovibilita'»  (ordinanza  n.
5715/2015, cit.). 
    In sostanza, la deroga relativa ai contratti e agli incarichi  in
corso,  limitata  alla  loro  naturale  scadenza,  non  riguarda   il
ricorrente, in quanto egli e' titolare di un  rapporto  di  lavoro  a
tempo indeterminato regolato da norme di legge. 
    I provvedimenti impugnati, in quanto frutto dell'applicazione  di
puntuali previsioni legislative, impongono quindi  lo  scrutinio  dei
plurimi, delicati  profili  di  possibile  incostituzionalita'  delle
stesse, sollevati da parte ricorrente e/o deducibili d'ufficio. 
    La   rilevanza   delle   indicate   questioni   di   legittimita'
costituzionale per la decisione del ricorso non appare dubbia, atteso
che i provvedimenti impugnati  trovano  la  loro  indefettibile  base
normativa nel citato art. 1, comma 489, della legge n. 147 del  2013,
per  modo  che  il  suo  eventuale  annullamento  per  illegittimita'
costituzionale comporterebbe  l'illegittimita'  derivata  degli  atti
amministrativi impugnati con il conseguente accoglimento del  ricorso
che altrimenti -alla stregua delle pregresse considerazioni- dovrebbe
essere respinto. 
    10. Passando dunque al preliminare scrutinio dei numerosi profili
di illegittimita' costituzionale prospettati,  appare  manifestamente
infondata, in primo luogo, la censura di violazione dell'art. 3 Cost.
riferita al trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio
che la norma avrebbe  riservato  alla  categoria  cui  appartiene  il
ricorrente, in particolare per quanto riguarda la mancata  estensione
ad essa della disposizione derogatoria, prevista, in  sede  di  prima
applicazione, che fa "salvi i contratti e gli incarichi in corso fino
alla loro naturale scadenza prevista negli stessi". 
    Essa, infatti, come gia' evidenziato, non si riferisce a tutti  i
dipendenti della pubblica amministrazione  titolari  di  rapporti  di
lavoro privatizzati e contrattualizzati, bensi' soltanto ai  rapporti
a  tempo  determinato  su  base  convenzionale  tra   amministrazioni
pubbliche e soggetti privati, in corso alla data di entrata in vigore
della disposizione medesima. 
    Al  riguardo,  non   appare   ipotizzabile   una   ingiustificata
disparita' di trattamento, poiche' e' evidente che  gli  incarichi  a
tempo determinato assunti su base convenzionale  non  sono  in  alcun
modo  paragonabili  a  rapporti  di  lavoro  a  tempo  indeterminato,
regolati da norme di legge, e caratterizzati  dall'esercizio  di  una
funzione pubblica di natura giurisdizionale, assistita dalle garanzie
di stabilita' e di inamovibilita'. 
    11. Parimenti infondata risulta  la  questione  incentrata  sulla
violazione del principio della tutela dell'affidamento, di  cui  agli
articoli 3 e 117, comma 1, della  Costituzione  e  all'art.  6  della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. 
    In proposito e' sufficiente ribadire le considerazioni svolte  al
riguardo dalla prima Sezione di questo Tribunale. 
    In particolare, nella suddetta ordinanza  n.  5715  del  2015  e'
stato posto in rilevo quanto segue: 
      A) «la  previsione  di  compensi  e  trattamenti  pensionistici
massimi a carico  della  finanza  pubblica  per  i  singoli  soggetti
titolari di pubblici uffici non  appare  intrinsecamente  illogica  o
negativa  ai  fini  di  una  razionalizzazione  della  c.d.  "giungla
retributiva" che storicamente ha caratterizzato  -  secondo  numerose
indagini del Parlamento, del  Governo  e  di  Organi  indipendenti  -
un'Amministrazione non sempre caratterizzata da  massimi  livelli  di
efficienza, mentre - dal  punto  di  vista  dei  singoli  trattamenti
retributivi   oggetto    del    presente    giudizio    -    all'atto
dell'accettazione della nomina alla Corte dei Conti  gli  interessati
-anche in virtu' delle stesse competenze ed esperienze  professionali
che ne avevano motivato la scelta - erano o  ben  potevano  essere  a
conoscenza delle recenti misure di legge volte al contenimento  della
spesa pubblica ed adottate proprio su iniziativa dello stesso  Potere
Esecutivo che li aveva proposti al nuovo incarico, di modo che  -  da
un  lato  -  l'accettazione  non  poteva  non  implicare   la   piena
consapevolezza circa i prevedibili limiti al  proprio  compenso  e  -
dall'altro - la proposta di nomina assolutamente fiduciaria da  parte
del Governo non poteva ragionevolmente suscitare l'aspettativa di  un
trattamento differenziato quanto alla sorte del  proprio  compenso  a
carico della finanza pubblica, in quanto cio' si sarebbe tradotto  in
una ampissima facolta' di deroga del Governo - rispetto alle norme da
esso  proposte  -  in  favore  di  singoli  soggetti   dallo   stesso
individuati, suscitando profili di  problematica  coesistenza  con  i
principi di legalita' ed uguaglianza davanti alla legge  sanciti  dal
nostro ordinamento»; 
      B) «il nuovo generale tetto economico in  esame  risponde  agli
obiettivi d'interesse pubblico  lasciati  alla  discrezionalita'  dei
singoli Stati  quanto  al  contenimento,  alla  trasparenza  ed  alla
congruita'  della  spesa  pubblica,  nel   quadro   dei   doveri   di
solidarieta' sociale di cui  all'art.  2  della  Costituzione  e  dei
principi di buon andamento dell'amministrazione di cui  all'art.  97,
mentre la Corte costituzionale ha piu' volte chiarito  che,  salvi  i
limiti in materia penale derivanti dall'art. 25, comma 2, Cost.,  non
e' in linea di principio  precluso  al  legislatore  intervenire  per
mutare la disciplina dei rapporti  di  durata  in  corso,  anche  con
disposizioni  che  modificano   in   senso   sfavorevole   situazioni
soggettive perfette, purche' nel limite del rispetto del principio di
eguaglianza ex art. 3  Cost.  e  del  principio  di  affidamento  dei
cittadini nella sicurezza giuridica, che - come sopra chiarito -  non
appaiono violati nella fattispecie in esame (in senso conforme, Corte
cost., sentenze n. 92 del 2013, n. 166 del 2012, n. 525 del 2000,  n.
211 del 1997, n. 409 del 1995)». 
    12.  Anche  con  riferimento  alla  questione  incentrata   sulla
violazione degli articoli 3  e  53  della  Costituzione,  valgono  le
considerazioni svolte dalla prima Sezione questo Tribunale. 
    In particolare, nella suddetta ordinanza  n.  5715  del  2015  e'
stato  evidenziato  che  «le  descritte  finalita'  di  contenimento,
trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica determinano, non
irragionevolmente,  una  progressiva  decurtazione,  disciplinata  ex
lege, dei possibili ulteriori redditi  al  raggiungimento  del  tetto
prefissato,  indifferenziatamente  applicata  a  tutti   i   compensi
comunque posti a carico della finanza pubblica, senza che cio'  possa
generare, proprio per la sua trasversalita', indebite  disparita'  di
trattamento, divenendo quindi non rilevante, ai fini del  giudizio  a
quo, la sua invocata qualificazione quale  imposizione  fiscale,  che
sembra comunque doversi escludere, in quanto  la  legge,  in  estrema
sintesi, pone un "tetto" a regime all'erogazione a chiunque di  somme
a titolo retributivo e pensionistico poste  a  carico  della  finanza
pubblica, anziche' imporre un prelievo forzoso sulle somme  percepite
dal singolo interessato oltre il tetto prefissato». 
    13. Non manifestamente infondate, risultano invece  le  questioni
di legittimita'  costituzionale  incentrate  sulla  violazione  degli
articoli 3, 4, 36 e 38 Cost.,  degli  articoli  3,  95  e  97  Cost.,
nonche' degli articoli 100, 101, 104 e 108 Cost. 
    Il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta infatti
che la remunerazione della funzione di Consigliere di  Stato  risulti
fortemente ridotta o  del  tutto  azzerata,  con  una  corrispondente
decurtazione dei contributi  previdenziali  e,  di  conseguenza,  del
trattamento pensionistico derivante dall'accumulo  di  tale  montante
contributivo, si' da determinare: 
      A) una violazione del diritto al lavoro e ad  una  retribuzione
«proporzionata alla quantita' e qualita'» del lavoro prestato; 
      B) una disparita' di trattamento fra soggetti che  svolgono  la
medesima attivita' ed una irrazionale organizzazione della  Giustizia
amministrativa; 
      C)   un   indebolimento   delle   garanzie   di    indipendenza
nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali. 
    14. In particolare, con riferimento alla  prospettata  violazione
degli articoli 3, 4, 36 e 38 Cost., nella suddetta ordinanza n.  5715
del 2015 e' gia' stato posto in rilievo quanto segue: 
      «il Collegio ritiene che debba essere preso  in  considerazione
non il pur elevatissimo standard qualitativo dell'attivita' svolta da
funzionari pubblici in  possesso  di  un  grado  di  preparazione  di
assoluta eccellenza per aver  ricoperto  in  anni  di  servizio  alle
dipendenze  dello  Stato  cariche  apicali  (avendo  di   conseguenza
maturato l'elevato trattamento pensionistico "causa" del  taglio  del
compenso), in quanto cio' potrebbe  giustificare  anche  un  incarico
"onorario", in ipotesi anche gratuito, bensi'  la  circostanza  dello
svolgimento continuativo, con lo stabile ed organico inserimento  nel
relativo organico e con particolari  garanzie  di  stabilita',  della
funzione di Consigliere della Corte dei conti,  con  l'assunzione  da
parte degli interessati di tutte le connesse prerogative e delicate e
- non da oggi - rilevanti responsabilita', di natura professionale  e
civile, per il proprio operato. I tratti fondamentali  dell'attivita'
professionale stabilmente svolta  dai  ricorrenti,  a  seguito  della
nomina alla Corte dei Conti, sotto la propria responsabilita'  e  con
pieno inserimento organico, nell'ambito di una "magistratura  togata"
vale dunque a configurare l'esercizio di una vera e propria e stabile
attivita' lavorativa professionale, differenziando la fattispecie  in
esame dai  numerosi  casi  di  svolgimento  (talvolta  essenzialmente
gratuito) di pubblici uffici "onorari", di volta in volta motivati da
alte e peculiari competenze  (come  accade  per  i  Tribunali  per  i
minori) o  da  meccanismi  di  sorteggio  nell'ambito  di  platee  in
possesso  di  particolari  requisiti  (come  accade  per  le   giurie
popolari), anche ai fini  dell'esercizio  della  sovranita'  popolare
(come accade per i seggi  elettorali)»;  inoltre,  «la  scelta  dello
Stato, mediante la disposizione di legge in esame, di  continuare  ad
avvalersi del pieno apporto professionale dei  ricorrenti  (nulla  la
norma dicendo al riguardo, salve le  loro  eventuali  dimissioni  per
evitare, in applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge  n.  147
del  2013,  di  prestare  attivita'  lavorativa  non   retribuita   o
retribuita in maniera  estremamente  esigua),  anziche'  disciplinare
normativamente  l'ipotesi  in  esame  (ad  esempio,   prevedendo   la
incompatibilita'  o  decadenza  ovvero  una  opzione   per   funzioni
differenziate con minore compenso o del tutto onorarie e gratuite)  e
al tempo stesso di "di auto-esonerarsi" in tutto  o  in  parte  dalla
loro retribuzione (non ponendo la norma alcuna deroga al tetto a tale
riguardo), pur avendo esso Stato chiesto agli interessati di svolgere
tale  funzione  mediante  la  proposta  di   nomina   alla   funzione
(retribuita) di Consigliere della Corte dei Conti  -  dichiaratamente
motivata  dalla  loro  eccellenza  professionale  in  ragione   della
delicatezza e quindi dell'impegno delle funzioni da svolgere - appare
costituzionalmente  irragionevole,  con  la   conseguente   possibile
violazione dell'art. 36, primo comma, della Costituzione,  quanto  al
diritto ad una retribuzione proporzionata alla  quantita'  (oltreche'
alla qualita') del  lavoro,  nonche',  indirettamente,  dell'art.  38
della Costituzione, in quanto la  drastica  riduzione  o  addirittura
l'azzeramento  della  retribuzione  -   e   quindi   della   relativa
contribuzione  -  precludono  la  conseguente  implementazione  della
tutela assistenziale e previdenziale garantita dall'ordinamento». 
    Alla luce di tali condivisibili considerazioni, al Collegio resta
solo da evidenziare che le stesse valgono evidentemente anche per  il
ricorrente. 
    Difatti egli, attraverso la  propria,  pregressa  esperienza,  ha
maturato un trattamento pensionistico di ammontare prossimo al  tetto
di 240.000,00 euro e, quindi, si  troverebbe  a  dover  svolgere  una
funzione di cruciale importanza e di grande responsabilita' - qual e'
quella di Consigliere di Stato - percependo una retribuzione esigua o
addirittura azzerata. 
    15. Relativamente alla prospettata violazione degli  articoli  3,
95 e 97 Cost., il Collegio osserva poi che anche  per  i  Consiglieri
Stato di nomina governativa,  del  tutto  equiparati  ai  Consiglieri
Stato vincitori di concorso e a  quelli  provenienti  dati  Tribunali
Amministrativi Regionali, valgono le seguenti considerazioni,  svolte
nell'ordinanza n. 5715 del 2015: «premessa  la  determinazione  delle
sfere  di  competenza,  attribuzioni  e   responsabilita'   in   modo
indifferenziato per  i  Consiglieri  di  concorso  ovvero  di  nomina
governativa, la disposizione di legge che pone il tetto retributivo e
pensionistico - e quindi differenzia nell'ambito di questi ultimi fra
quelli  retribuiti,  ovvero  privi  di  retribuzione  a  seguito  del
raggiungimento del tetto, senza disciplinare la loro sorte - potrebbe
essere  ritenuta  suscettibile  di  determinare,  da  un  lato,   una
ingiustificata disparita' di  trattamento  quanto  alla  retribuzione
ovvero mancata retribuzione della medesima  attivita'  professionale,
e, dall'altro, una irragionevole  organizzazione  contraria  al  buon
andamento amministrativo mediante  l'indifferenziato  affidamento,  a
titolo oneroso ovvero a titolo gratuito, di  funzioni  di  dichiarata
rilevanza, impegno e delicatezza, atteso che  anche  la  retribuzione
dei funzionari pubblici deve rispondere - alla stregua del  Trattato,
della Convenzione europea e degli articoli 36 e 97 della Costituzione
- ad  un  rapporto  sinallagmatico  ("proporzionato")  riguardo  alla
quantita' e qualita' del lavoro svolto,  non  potendo  quindi  essere
considerati fungibili il trattamento pensionistico  per  un'attivita'
precedente e il compenso per un'attivita'  in  atto,  ove  consentita
nell'ambito dei diritti di liberta' garantiti dalla Costituzione». 
    16. Non  manifestamente  infondata  appare  infine  la  questione
incentrata sulla violazione degli articoli 100, 101, 104 e 108 Cost.,
in ragione del  possibile  vulnus  allo  status  di  indipendenza  ed
autonomia  dei  magistrati,  protetto  dalle  predette   disposizioni
costituzionali. 
    Infatti,  «la  Corte  costituzionale,  nel   decidere   questioni
concernenti norme aventi ad oggetto la retribuzione e  la  disciplina
dell'adeguamento  retributivo  dei  magistrati,  ha   affermato   che
l'indipendenza  degli  organi  giurisdizionali  si   realizza   anche
mediante l'apprestamento di garanzie circa lo status  dei  componenti
concernenti,  fra  l'altro,  la  progressione  in  carriera   ed   il
trattamento economico (cosi', fra le altre, sentenza n. 1  del  1978)
che, in un assetto costituzionale dei poteri dello Stato che vede  la
magistratura  come  ordine  autonomo  ed  indipendente,  non  possono
esaurirsi in un mero rapporto di lavoro, in cui il  contraente-datore
di lavoro possa  al  contempo  essere  parte  e  regolatore  di  tale
rapporto  (Corte  cost.,  sent.  n.  223  del  2012)»  (ordinanza  n.
5715/2015, cit.). 
    17.  Quanto  appena  argomentato  giustifica  la  valutazione  di
rilevanza  e  non   manifesta   infondatezza   della   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 489,  della  legge  n.
147 del 2013, in relazione agli articoli 3, 4, 36, 38, 95,  97,  100,
101, 104 e 108 della Costituzione. 
    Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del  giudizio
e la rimessione degli atti alla  Corte  costituzionale  affinche'  si
pronunci sulla questione.